Punta Mazza e monte Serrone

Una escursione sul confine Ovest del parco, tra boschi e colori onirici, creste panoramiche e una lunga valle.


Era il 1° Novembre di un anno fa, era una giornata luminosa, come quella di oggi, con Giorgio e Giacomo ci siamo inoltrati in un territorio allora per noi nuovo, ai limiti del PNALeM; eravamo oltre Sora e Campoli Appennino, dove la statale 666 termina e incrocia la statale del parco 509 per Forca d’Acero e Opi, a destra dell’incrocio si scende verso San Donato in Val Comino. Li nasce, direzione Nord- Est una lunga e profonda valle, che progressivamente prende vari toponomastici, vallone del Rio il tratto iniziale, Capo d’Acqua il tratto centrale e valle Carbonara quello terminale. Eravamo saliti lentamente fino a valle Carbonara e da lì ci inerpicammo fino al rifugio di Ioiro rientrando per la stupenda cresta che corre sulle cime del Picco della Rocca e monte Rocca, su quella del monte della Strega e sul monte Pietroso fino al valico di Monte Tranquillo, E’ stato quel giorno, eccitati da un panorama a 360° sul parco, che abbiamo deciso di salire al Serrone dal versante Ovest, su quella lunga e a tratti boscosa cresta che scorreva parallela alla nostra verso Nord; il Serrone appariva nettamente come la vetta più importante e terminale di quel comprensorio. Ci incuriosì, si chiudeva sul Serrone, si toccava Punta Mazza e il Montagnone, un giorno l’avremmo percorsa. Era Aprile di quest’anno, Giorgio e Giacomo, l’hanno percorsa in condizioni quasi invernali, non ricordo perché non ero con loro e perché non ho risposto all’appello, probabilmente i soliti impegni di lavoro trattandosi di infrasettimanale. Il loro racconto insieme ai ricordi di un anno prima hanno tenuto acceso il progetto di tornare per quei tratti e di fatto è entrato di prepotenza nell’agenda mia e di Marina; ogni week end era quello buono per proporlo, ogni week end altre mete ci hanno distratto, stavolta però era arrivato il momento giusto. Ci alziamo presto, le giornate ormai sono corte, alle 8 siamo già all’imbocco del vallone del Rio, il parcheggio lungo la provinciale che sale a Forca d’Acero è già pieno. Il sole è ancora dietro la sagoma delle pendici del monte Tranquillo e non illumina la piana, l’intensa ombra di fondo valle contrasta con le dorsali già illuminate e il cielo azzurro che le incornicia, la temperatura è decisamente fredda per il periodo. Imbocchiamo la brecciata e ci dirigiamo verso la dorsale a sinistra, troviamo subito la sbarra aperta dove la strada inizia a costeggiare il fianco del pendio; proprio accanto alla sbarra inizia un leggera traccia, ben visibile che sale traversando, la imbocchiamo anche se non ci sono segnavia e tantomeno cartelli, obiettivo è raggiungere la leggera e boscosa dorsale per poi dirigersi verso Nord e verso quella poco pronunciata cimetta rocciosa che si intravede subito oltre il primo promontorio. Il primo “mammellone” della dorsale è monte Calvo, la cimetta invece, Punta Mazza. Raggiungiamo il bosco un po’ sotto quella che sembra la cresta, superiamo uno recinto di filo spinato e intercettiamo una ampia strada poco battuta, ormai invasa dall’erba, si dirige a Nord, la seguiamo fin tanto che diventa una sottilissima traccia che taglia in quota la testa della valle secondaria delle Vallocchie; la aggira e poi inizia a salire lentamente, si inoltra nel bosco di faggi e roverelle. Il sole ancora basso illumina magistralmente il bosco, lo infiamma, lo scalda, ci regala uno di quei momenti che si sognano per tutto l’anno. La traccia continua a salire lentamente, guadagna la parte alta delle Vallocchie, attraversa un fosso poco pronunciato ma molto scenografico, ne costeggia un altro molto più profondo ammantato di foglie cadute, gli alberi si fanno più fitti e raggiungiamo la zona delle miniere dove scorgiamo una vecchia cisterna in muratura; la raggiungiamo fuori sentiero fino ad intercettare la carrareccia dove troviamo i primi segnali bianco rossi, 1,20 ore dalla statale. Continuiamo per la strada, un paio di tornanti, arriviamo sotto le coste di punta Mazza proprio sulla testata delle Vallocchie, il panorama si apre ed è profondo fino alla val Comino giù in fondo, che tarda a liberarsi da una leggera nebbia. Un lungo traverso fatto di una sottilissima traccia sale in un terreno ruvido verso Sud fino all’ampia sella tra il basso monte Calvo e Punta Mazza; col senno del poi, anche se sulla carta non è tracciata e allungando un po’, avremmo dovuto percorrerla per toglierci dalle vie di mezzo e iniziare a percorrere la cresta, ma non l’abbiamo fatto. Continuando sull’ampia carrareccia si sale fino ad una dorsale secondaria che si affaccia sulla valle attigua, il boscoso e profondo vallone Lacerno, e sulla lontana Sora; bosco fitto e dorsale che vira verso Nord, il Serrone ancora non si palesa. Scorriamo intorno a Punta Mazza ancora in leggera salita e senza strappi fino ad intercettare un sentiero che si stacca sulla destra, in salita più accentuata e che è contraddistinto da un paio di segnavia di recente fattura; non prendiamo nemmeno questo, oggi evidentemente ci dice così e siamo recalcitranti a prendere vie di salita più ripide. Proseguiamo diritti fino a che la carrareccia non diventa un sentiero nemmeno troppo evidente, ci facciamo largo in un fondo soffice di foglie cadute di fresco e su un “tracciolino” molto stretto che taglia un versante sempre più ripido, quando sembra riprendere i connotati di un sentiero chiaro e ben marcato vira sulla destra per evitare il fianco di Punta Mazza che precipita a valle boscoso ed intricato ma si perde ben presto tra gli alberi senza darci segni di continuità. Non ci scoraggiamo, invece di tornare indietro decidiamo di salire i ripidi cento metri che ci separano dall’uscita dal bosco, è la volta azzurra del cielo a guidarci. Non è stato facile ma sbuchiamo fuori dal bosco e subito dopo intercettiamo di nuovo una sorta di carrareccia erbosa, ci chiediamo da dove provenga, probabilmente è il prolungamento del sentiero che abbiamo tralasciato anche se le larghe dimensioni lasciano pensare ad altro; ci affidiamo alla carta nella speranza di schiarirci le idee ma non abbiamo risposta, potrebbe essere il sentiero ben marcato che termina sul fianco del Montagnone ma sarebbe nel caso un grossolano errore di tracciatura sulla carta perché quella dove siamo è una carrareccia di un metro e mezzo quasi due, che abbiamo lasciato già un chilometro indietro e che terminava bruscamente; non ci facciamo altre domande, in fondo sono momenti già vissuti e le carte ormai sono documenti vecchi mai rivisti e corretti, le nuove ristampe sono solo delle riproduzioni delle vecchie . La fortuna vuole che usciamo su questa specie di carrareccia erbosa nelle vicinanze della piccola traccia che sale molto ripida e diretta inequivocabilmente verso la cima di punta Mazza. Due segnali rossi e ravvicinati sono posti all’imbocco su delle piccole pietre appena sporgenti, impossibile non notarli. Stavolta abbiamo dato retta all’istinto e ai segnavia, abbiamo preso a salire il ripido costone erboso su un sentierino che si arrotolava in frequenti e stretti tornanti, un pò attenuavano la salita. Una sosta, non poco l’affanno, superiamo i circa 200 mt di ripidissimo dislivello abbastanza rapidamente, alle 11,30 a poco più di 1,30 ore dalle miniere siamo in vetta a punta Mazza dove svetta una piccola croce d’acciaio. L’orizzonte si apre subito in tutte le direzioni, fantastico questo monticello, i 1776 mt della cima bastano a spaziare a Sud-Est fino ai monti della Meta che sovrastano distanti la dorsale del monte La Rocca e del monte della Strega che scorre parallela alla nostra oltre il vallone di Capo d’Acqua; a Nord la dorsale fino al Serrone limita l’orizzonte, evidente e interessante è il sentiero che scivola sinuoso a mezza costa sopra il bosco e sotto la cresta fino alla vetta del Serrone stesso. Imperioso, profondo e selvaggio è il vallone Lacerno che sempre verso Nord sale fino a chiudersi e perdersi sui pianori di Campo di Grano a cui fa da cornice il Monte Cornacchia, ad Ovest i Lepini, bassi e lontani formano un orizzonte sbiadito. Tonda ed erbosa la dorsale dove siamo si abbassa in direzione Sud verso il monte Calvo e il sottostante vallone delle Vallocchie che sembra avere fine sono nella lontana, ampia e più bassa val Comino. Il Montagnone è molto vicino e facile da raggiungere, non lo saliamo, sarebbe solo una banale spunta di una vetta, gli sfiliamo sotto mentre imbocchiamo il sentiero che scorre arrampicato sui costoni, ora rocciosi, che scendono ripidi a valle; in alcuni tratti sottile, in altri sdrucciolevole quello che basta, i primi trecento metri di avvicinamento al Serrone “muovono” un po’ l’escursione. Raggiungiamo lentamente la dorsale poco prima del Serrone, l’affaccio su una pronunciata sella si espone dentro valle Copella che scende ripida e boscosa dentro valle Carbonara; si intuisce più in basso, al limitare del bosco, una traccia di sentiero che si potrebbe usare per scendere, si ferma sotto i ghiaioni che scendono dalla cresta ripidi e poco sicuri, ripongo l’idea nel cassetto e riprendiamo verso la vetta del Serrone che raggiungiamo esattamente all’una del pomeriggio, 1,20 ore da punta Mazza. Una croce semplice, posta al centro di una grossa base costruita in pietre, domina l’intero orizzonte che ora si estende fino al Velino e alla piana di Avezzano e fino all’onnipresente Corno Grande che svetta di poco sopra la lunga dorsale del Sirente. Davvero avvincente la linea di cresta che scende verso Nord sul vicino Balzo di Ciotto e la sua conca detritica e che si allunga fino al monte Tre Confin e immenso il pianoro ondulato dei Campi di Grano che sale fino al Cornacchia e sui quali si va a chiudere il profondo vallone Lacerno, tutto sa di montagne isolate, solo da percorrere e scoprire. Rimaniamo un po’ in vetta, ci serve tirare il fiato, è come sempre introspettivo perdersi sull’orizzonte, oggi è formato dalle montagne del parco, da quel susseguirsi di “onde”, una dietro l’altra a scandire il territorio; alla dorsale del Picco la Rocca, segue la valle di Pescasseroli, arroccato su uno sperone Opi anticipa la dorsale del Marsicano e dietro chiudono l’orizzonte le montagne della Meta e delle Mainarde. Mai, mai, mai le foto renderanno giustizia a questo colpo d’occhio così vasto e familiare. In controluce intravedo nel profilo di cresta due figure che salgono verso l’anticima del Serrone, è sottile, non l’ho mai percorsa e mi viene voglia di farla in discesa, decisione che rimando all’ultimo momento. Le ombre nel frattempo si allungano velocemente, il pomeriggio avanza, le giornate sono più corte, ci decidiamo ad alzare le tende e riprendiamo la via del rientro che vogliamo avvenga per la valle Carbonara e per la successiva valle Capo d’Acqua. Sulle balze sotto la vetta, mentre scendiamo, incontriamo il primo dei due che stavano salendo e che tenevo d’occhio dalla vetta, ne approfitto per chiedere la praticabilità dell’intrigante cresta e ne viene fuori che a parte un paio di brevi tratti in cui occorre prudenza è fattibile anche in senso inverso. E’ Marina che nota il suo zaino e sul suo zaino la toppa del Club 2000, cosa che ci rendeva affini, le solite domande sul numero di vette raggiunto, facciamo conoscenza e ci rendiamo conto che siamo già “amici” di Facebook; è stato davvero piacevole questo incontro e sigillare così l’amicizia dando un volto ad Emiliano Tersigni. Altro che amicizia virtuale. Ciao Emiliano. Emiliano nella sua schiettezza e competenza mi aveva quasi convinto ad affrontare la sottile crestina che scendeva dall’anticima, è stata la prudenza a fermarmi, eravamo stanchi e il pomeriggio avanzava, preferivo il passo certo e veloce dentro la comba detritica che quello guardingo in discesa sull’esile crestina; Marina era d’accordo e ci siamo infilati dentro i ghiaioni dell’antico ghiacciaio. I primi tratti in ombra, dove c’era poca erba, regnava un leggero strato di ghiaccio facile da superare, la pendenza è diminuita subito e l’attraversamento del ghiaione detritico è stato molto veloce, per fortuna aggiungo, perché in ombra la temperatura è scesa repentinamente. Risaliamo la leggera costa che chiude la comba detritica e che confina sul versante opposto con valle Carbonara, spoglia da alberi scende ampia e con leggerezza verso il valico di Schiena d’Asino da dove intercetteremo il sentiero per la discesa. Le ombre sono sempre più lunghe, in poco più di 30 minuti raggiungiamo il valico, una piccola croce su uno sperone mi dice che nei pressi dovremmo incrociare il sentiero che sale da Vallelonga e che traversando il valico prende a scendere su valle Carbonara; per fortuna dei segnali su qualche albero ci hanno indicato la via, l’alto strato di foglie cadute cancellava ogni traccia a terra. Non sarebbe stato comunque difficile trovare la giusta direzione, il bosco spoglio, le leggere pendenze dei versanti che confluivano in un unico ampio vallone verso Sud non potevano far nascere dubbi; siamo scesi praticamente al centro dei versanti, nel mezzo di un bosco arioso, pulito, faggi diritti e altissimi, le foglie brunite a terra formavano un alto tappeto omogeneo, i chiari tronchi dei faggi risaltavano nella volta del cielo azzurro, il resto di questo quadro onirico lo costruiva una luce ormai pomeridiana che aveva steso un mantello trasparente e grigio a valle e che allungava le ombre e moltiplicava le linee del bosco alle quote più alte del versante Sud; riuscite ad immaginare questo momento, la leggerezza con cui siamo scesi fino ad imboccare la carrareccia di valle Carbonara, esattamente dove una palina, 20 minuti dal valico, indica la direzione da prendere per salire al rifugio Di Iorio? Semplicemente un momento sublime. Rimanevano da percorrere gli ultimi cinque chilometri, tutti in valle, tutti su una strada larga, prima attraversando la valle Carbonara e poi quella di Capo d’Acqua, ormai quasi interamente in ombra, un percorso che avevamo anche fatto in senso contrario l’anno prima e quindi, per dirla brevemente, ci aspettavamo solo un lungo e probabilmente noioso trasferimento per rientrare alla macchina. Qualche momento di controluce tra i rami spogli del versante Nord hanno formato atmosfere eteree, dalla parte opposta la calotta azzurra del cielo faceva da quinta all’esercito di faggi inquadrati fin sulle creste, tagli netti tra ombre e luce, oscurità nel centro della valle, colori caldi ammalianti nella dorsale alla nostra sinistra, istanti coinvolgenti, probabilmente già vissuti ma sempre belli da incontrare ed emotivamente forti. Dopo un paio di chilometri dalla palina per il rifugio Di Iorio e 45 minuti di cammino passiamo accanto al rifugio capo d’Acqua, bella struttura, sempre puntualmente chiusa. Ad Ovest la valle si apre, la dorsale di monte Calvo si allunga e lascia ormai intravedere la fine del vallone; quando non ci si aspetta più nulla, quando si sta quasi per entrare nell’ampio vallone del Rio il sole che entra radente ci regala attimi di colore indimenticabili; un breve tratto di bosco che stiamo attraversando viene traversato di taglio dagli ultimi momenti di luce del pomeriggio e tutto si infiamma, gialli, rossi, alternati ad ombre lunghe e all’azzurro del cielo si mischiano in un turbinio di colori caldi, è come se la tavolozza di un pittore fosse volata in alto e ricaduta sparpagliando solo le tonalità calde dello spettro luminoso, un viale al centro e colori intensi tutto intorno, un quadro pazzesco, un momento incredibile che avremmo voluto fermare e che è volato via nel giro di quindici minuti. Entriamo nel vallone del Rio ormai fuori dalla stretta gola racchiusa tra le due dorsali, siamo ancora storditi dai colori precedenti, Avevamo preso tutto quello che la giornata poteva darci e quando dopo 45 minuti dal rifugio arriviamo alla macchina le ombre si stavano già stendendo ovunque. Non rimaneva che il nostro consueto terzo tempo; stavolta andavamo su sicuro, a soli trecento metri la trattoria del Covo dei Briganti, sempre aperta a tutte le ore, era una sicurezza, e in meno di venti minuti eravamo seduti a tavola. I dati della giornata sono scarni, inutili e anche stupidi a questo punto, tanto è stato vario, colorato panoramico e bello quello che si è succeduto; un anello di quasi 15 chilometri, 1200 i mt di dislivello superati, quasi 8 le ore in giro. Ogni unità di misura non potrà mai esprimere la nostra soddisfazione e soprattutto la nostra serenità dopo una giornata vissuta in questo modo.